Venerdì 1 maggio 2020
| Noi e la Festa del 1° Maggio: qualche riflessione – di Lia Melisburgo |
La mia riflessione parte da un concetto: ogni celebrazione, con la memoria che ad essa si affida e in essa si riconosce, esprime un dialogato con il proprio tempo e per questo assume tono e risonanze particolari .
Il tempo che viviamo, all’insegna di una clausura che rimonta ormai quasi a due mesi e di cui speriamo di poter a breve vedere la fine, ci pone di fronte alla necessità di dare alle cose un senso, e di scavare in esso.
La mia non sarà una capillare ricostruzione della storia della festività del primo maggio: più una riflessione globale per punti, che mi piacerebbe condividere.
Festa del primo maggio: Festa dei Lavoratori o del Lavoro?
La prima definizione si basa su una interpretazione, per così dire, prevalentemente economico- sociale ed è intrinsecamente connessa al fatto storico che – insieme ad altri – ne è radice: la tragedia della rivolta di Haymarket, avvenuta a Chicago nel 1886, dovuta alla rivendicazione di una giornata lavorativa fatta di otto ore, di contro agli orari inumani che erano la regola, tanto per gli adulti quanto per i minori.
Già a metà del secolo XIX Marx ed Engels avevano avuto il merito di portare alla ribalta lucidamente le condizioni lavorative spietate che ad ogni paese europeo erano comuni alla fine di avviare il riscatto del proletariato; ma fu nel 1889 che si cercò di dare, con una festività indetta dai lavoratori, loro maggiore visibilità al loro protagonismo, e la Seconda Internazionale socialista favorì l’ufficialità della ricorrenza in tutta Europa.
In Italia l’avvio fu in sordina: la festa del 1° maggio fu celebrata per la prima volta nel 1891: quel giorno era la data in cui, nella consapevole sospensione del lavoro potesse verificarsi l’incontro ideale – ( malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, come da volantino del 1890) – dei lavoratori di tutto il mondo che affermavano il rifiuto di una condizione servile e la coscienza dei propri diritti.
L’obiettivo originario delle otto ore lavorative venne mano a mano integrato da altre rivendicazioni politiche e sociali rispondenti alle condizioni reali nelle diverse epoche. Attraverso il tempo la manifestazione ha mantenuto il duplice carattere di lotta e di festa: lotta legata alle rivendicazioni, festa per la sospensione del lavoro e celebrazione dei risultati raggiunti.
Il Fascismo, nel progressivo distacco dalla sua matrice socialista e divenuto regime, cancellò il primo Maggio e vi sostituì la celebrazione del Natale di Roma (21 aprile); dopo la Liberazione, la festività del 1° maggio fu ripristinata: e tuttavia, poiché quelle stesse spaccature della società, anteriori al ventennio e inibite e soffocate durante il regime, dopo la caduta di Mussolini riemersero drammaticamente nel contesto della resistenza all’occupazione tedesca e alla Repubblica di Salò con una vera e propria guerra civile.
Nei suoi primi anni di vita, la Repubblica italiana nata dalla Resistenza fu funestata da episodi tragici come la strage di Portella della Ginestra in Sicilia; solo lentamente la Giornata del Lavoro riuscì a recuperare il suo carattere universale, ridiventando la piattaforma in cui tutti i lavoratori potessero ritrovarsi. Le tradizionali celebrazioni a spiccata colorazione politica hanno negli ultimi decenni lasciato il posto o, per meglio dire, hanno finito per convivere con manifestazioni più caratterizzate dal desiderio di stare insieme, di esprimere la gioia e lo slancio verso il futuro.
Io amo definire il Primo Maggio Festa del lavoro. L’evoluzione dei tempi credo renda superata la pregiudiziale distinzione tra lavoratori manuali (contadini, operai) e intellettuali: emerge con forza la centralità del lavoro in sé. Tutti ricordiamo con il giusto orrore la carica crudelmente derisoria della famosa scritta “Il lavoro rende liberi”: ma ,in quel caso, il lavoro rientrava nel piano distruttivo concepito dal sistema nazista giacché, privato della sua potenzialità emancipatrice, il lavoro diveniva fattore di ripristino della condizione schiavile, diretto riflesso economico di una visione della società distinta in superiori e inferiori, padroni e servi: con l’indiscutibile diritto degli uni di eliminare gli altri, anche fisicamente, nel momento in cui non servissero più.
Lavoro e dignità sono intimamente correlati: il lavoro conferisce dignità alla persona, come la persona – per elevatezza di principi etici, oltre che per merito e competenza – conferisce dignità al lavoro. In questo primo maggio 2020, celebriamo la festa del Lavoro in un’atmosfera del tutto nuova per noi: ma direi che proprio per il trauma che ci ha colpiti e ci fa soffrire, il lavoro appare ancor più fondamentale, non solo per ciò che produce e il profitto che procura, ma per le innovazioni e per le utili applicazioni che lo plasmano e, con esso, plasmano la società.
Il Concertone dei lavoratori che, con l’accordo dei sindacati da qualche anno, per consuetudine si teneva in Piazza San Giovanni a Roma, questa sera partirà dal chiuso degli studi televisivi che manderanno in onda le esibizioni che avverranno live in diversi luoghi d’Italia. Lo slogan che lo contraddistingue quest’anno è “Il lavoro in Sicurezza: per Costruire il Futuro”: certo vi traspare il legame con i problemi che in alcuni settori pongono i lavoratori di fronte al drammatico dilemma di una scelta tra lavoro e malattia , ma credo che possa anche raccogliere e riflettere le difficoltà – proprie di chi al momento governa, ma che investono tutti – di fronte alla decisione di una riapertura delle attività che potrebbe mettere a rischio molte vite umane e a quella, alternativa, una salvaguardia ad oltranza di esse con il rischio di una grave crisi economica.
Dunque: oggi primo maggio, Festa del Lavoro.
Molti di noi hanno lavorato ed ora, in quanto pensionati, sono più spettatori che attori: ma ciascuno deve maturare una riflessione opportuna, in sintonia con il tempo “ proprio” e quello degli altri: è solo la mia personale opinione, ma penso che quanto ci è stato imposto ora dobbiamo consapevolmente sceglierlo e attuarlo, usufruendo della nostra riacquistata libertà con moderazione. Cioè lasciare più spazio e movimento a chi del lavoro attivo ha bisogno e lo esercita, alimentando in noi soprattutto il lavoro della mente: magari ricordando che in Seneca (Epistulae ad Lucilium I, 9 , 18-19) il sapiens afferma “Omnia mea mecum sunt” ( “tutto quel che è mio è sempre con me”), giacché i sentimenti, il pensiero, la dignità sono risorse che – quando ci sono – risiedono nella persona e da lei dipendono, non dalla sorte…
Ma forse ricordare Seneca è un po’ settoriale: mi piacerebbe allora concludere con qualche richiamo, per stralci, ad una canzone di Giorgio Gaber del 1995-96, intitolata “Io come persona” facente parte dell’Album “E Pensare Che C’era Il Pensiero”.
“Io come persona”
“In un tempo di rassegnata decadenza serpeggia la paura nascosta dall’indifferenza.
In un tempo così caotico e corrotto in cui da un giorno all’altro ci può succedere di tutto.
In un tempo dove milioni di persone si massacrano tra loro e non sappiamo la ragione.
In un tempo tremendo in ogni parte del mondo.
In un tempo dove il mito occidentale nel momento in cui stravince è nella crisi più totale.
In un tempo indaffarato e inconcludente dove si alza minaccioso il sole rosso dell’oriente.
In un tempo sempre più ostile allo straniero dove pian piano tutti i popoli stanno premendo sull’impero.
(In un tempo tremendo in ogni parte del mondo.)
In un tempo dove tutto ti sovrasta e qualsiasi decisione passa sopra la tua testa.
In un tempo dove il nostro contributo la nostra vera colpa è solamente un voto.
In un tempo che non ti lascia via d’uscita dove il destino o qualcuno ha nelle mani la tua vita
[Io come persona io come persona io come persona completamente fuori dalla scena io come donna o uomo che non avverte più nessun richiamo.
Io che non capisco e che non riesco a valutare e a credere io confuso e vuoto e rassegnato a non schierarmi mai a non schierarmi mai a non schierarmi mai]
In un tempo tremendo, piano piano ti allontani da tutto, ma con fatica senza arroganza, come un uomo sconfitto che riesce a vivere solo, rifugiandosi nel suo piccolo mondo. Ma la salvezza personale non basta a nessuno. E la sconfitta è proprio quella, di avere ancora la voglia di fare qualcosa, e di sapere con chiarezza che non puoi fare niente. È lì che si muore. Fuori e dentro di noi.Sei come un individuo innocuo, senza giudizi e senza idee. Un individuo sempre più smarrito e più impotente. Un uomo al termine del mondo, ai confini del più niente.
Ma io ci sono io ci sono
io come persona ci sono
io come persona ci sono ancora
io coi miei sentimenti ci sono
io coi miei sentimenti ci sono ancora
Io con la mia fede ci sono
io con la mia fede ci sono ancora
Io come donna o uomo ci sono
io come donna o uomo ci sono ancora.
IO COME PERSONA CI SONO